Cassazione penale, sez. III, sentenza 23/05/2019 n° 22579
Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione ha confermato la condanna al pagamento della multa di 10.000 euro, così rideterminata dalla Corte d’Appello dopo l’impugnazione della sentenza emessa in seguito alla scelta del rito abbreviato, inflitta al ricorrente per aver omesso le necessarie cure nei confronti del suo cane, accettando il rischio dell’aggravamento della malattia di cui era affetta con conseguente protrarsi delle sofferenze da questa generate.
In particolare, il cane oggetto della condotta penalmente rilevante ai sensi dell’art. 544 ter c.p. era stato visto vagare per strada in pessime condizioni e, sottoposto a visita medico veterinaria presso l’Asl dopo essere stato raccolto dagli operatori del canile, era risultato affetto da tumori mammari ulcerati, che avevano richiesto un intervento d’urgenza, nonché dermatite, calli da decubito e artrosi.
Con il ricorso per cassazione, il proprietario del cane lamentava violazione di legge e contraddittarietà della motivazione, per un verso censurando la ritenuta sussistenza del dolo eventuale nella condotta rilevante ex art. 544 ter c.p., stante l’assunta natura colposa dell’omissione di cure; per altro verso, stigmatizzando l’imputabilità al ricorrente della malattia riscontrata nel cane e di conseguenza escludendo l’integrazione dell’elemento materiale del reato ex art. 544 ter c.p. sub specie di lesione.
I profili censurati hanno consentito alla Corte di fornire importanti precisazioni sulla fattispecie di reato interessata, di cui pare opportuno ricordare sommariamente le caratteristiche.
Maltrattamento di animali (art. 544 ter)
La disposizione normativa in questione, collocata nell’ambito del titolo nove bis del libro secondo del codice penale, punisce con la reclusione da 3 a 8 mesi o con la multa da 5.000 a 30.000 euro chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagioni una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche ovvero somministri agli animali sostanze stupefacenti o vietate ovvero li sottoponga a trattamenti che procurano un danno alla salute degli stessi; punisce poi con la pena aumentata della metà le condotte da cui derivi la morte dell’animale.
Trattasi di una fattispecie penale comune, in quanto realizzabile da chiunque, a forma libera, in quanto realizzabile con modalità diverse di concretizzazione dell’offesa al bene giuridico (il sentimento per gli animali), la cui eventuale plurima realizzazione configura comunque un solo reato.
Nell’alveo della fattispecie rilevante nel caso all’esame della Corte (“chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale”) la condotta è sostanzialmente plasmata sul modello dell’art. 582 c.p. sì che è sufficiente che l’azione sia causale rispetto all’evento tipico, potendo così assumere rilevanza qualsiasi comportamento umano, sia attivo che omissivo.
Quanto alle lesioni, è pacifico in giurisprudenza che la norma non richieda che vengano provocate lesioni fisiche, ma che le lesioni siano integrate dalle “sofferenze di carattere ambientale, comportamentale, etologico o logistico, comunque capaci di produrre nocumento agli animali, in quanto esseri senzienti”; di fatti è stato precisato che “nel reato di maltrattamento di animali, la nozione di lesione, sebbene non risulti perfettamente sovrapponibile a quella prevista dall’art. 582 c.p. implica comunque la sussistenza di un’apprezzabile diminuzione della originaria integrità dell’animale che, pur non risolvendosi in un vero e proprio processo patologico e non determinando una menomazione funzionale, sia comunque diretta conseguenza di una condotta volontaria commissiva od omissiva” (in tal senso, si veda Cass. Sentenza del 27 giugno 2013, Pr. e altro).
La connotazione della condotta dalla presenza della crudeltà o dalla mancanza di necessità assume rilievo anche sotto il profilo dell’elemento psicologico in quanto si ritiene che il relativo reato si configuri come reato a dolo specifico, nel caso in cui la condotta lesiva dell’integrità e della vita dell’animale sia tenuta per crudeltà, e a dolo generico quando essa è tenuta, come nel caso in esame, senza necessità.
L’elemento psicologico funge peraltro da discrimine ulteriore della fattispecie in questione, che rientra nell’ambito dei delitti, con la fattispecie di cui all’art. 727 che rientra nella tipologia delle contravvenzioni e può avere anche solo natura colposa.
Ed invero ogni comportamento produttivo nell’animale di sofferenze che non trovino adeguata giustificazione costituisce incrudelimento rilevante ai fini della configurabilità del citato delitto contro il sentimento per gli animali mentre la detenzione anche colposa di animali con modalità tali da arrecare gravi sofferenze, incompatibili con la loro natura, – avuto riguardo, per le specie più note (quali, ad esempio, gli animali domestici), al patrimonio di comune esperienza e conoscenza e, per le altre, alle acquisizioni delle scienze naturalistiche – costituisce comportamento rilevante ai fini della contravvenzione di cui all’art. 727 c.p.
Il delitto di detenzione di animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze (articolo 727 c.p., comma 2) ha natura di reato permanente, la cui consumazione inizia nel momento in cui l’autore del reato tiene gli animali nella condizione vietata e cessa nel momento in cui rimuove detta condizione o ne perde la disponibilita’, quando da cio’ consegua la cessazione dello stato antigiuridico nel quale gli animali versano per effetto della precedente detenzione.
Pertanto mentre la colpevole trascuratezza nei confronti del cane rientra nell’ipotesi dell’art. 727 c.p. la dolosa volontà di cagionare allo stesso lesioni o di sottoporlo alle altre condizioni previste dall’art. 544 ter c.p.rientra nella norma da ultimo citata.
La sentenza
La Corte di cassazione ha respinto entrambe le censure proposte giudicandole infondate.
Sotto il profilo dell’elemento psicologico ha evidenziato come, nel caso in esame, fosse stato accertato che il ricorrente non aveva sottoposto il cane alle cure, nonostante la condizione dell’animale fosse evidente, accettando in questo modo il rischio di un aggravamento delle sue condizioni: in altre parole, il ricorrente non poteva non sapere che il cane versasse in una condizione patologica suscettiva di evolversi e pertanto aveva agito con dolo generico in quanto, con totale incuria del cane, aveva cagionato notevoli sofferenze all’animale per l’aggravarsi della malattia.
Rispetto alla ritenuta (dal ricorrente) non imputabilità delle lesioni al medesimo, la Corte ha evidenziato come anche il protrarsi di una malattia già preesistente senza adeguate cure per limitarla o debellarla configuri le lesioni rilevanti ex art. 544 ter c.p. giacchè la nozione di malattia comprende tutte le alterazioni da cui derivi “una limitazione funzionale o un significativo processo patologico o l’aggravamento di esso ovvero una compromissione significativa delle funzioni dell’organismo”.
Di qui il rigetto del ricorso e l’affermazione del principio di diritto sopra enunciato.
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